FRANCOFONIA, di Alexander Sokurov (concorso)
Presentato in concorso durante la
terza giornata del Festival, Francofonia è sicuramente il titolo più atteso
dell’intera rassegna, sia per il nome (sinonimo di garanzia) del suo regista,
che per la lunga gestazione alla base del progetto che alcuni rumors volevano
già in una sua apparizione a Cannes 2014. In ogni caso, la pellicola di Sokurov
è un’opera dall’ampio respiro densissima di contenuti e decisamente
stratificata. L’autore russo non si fa scrupolo alcuno a risultare sgradevole o
noioso, il suo cinema o lo si ama o lo si odia. Eppure non si può rimanere
impassibili di fronte alla scelta visiva che spazia in ogni campo (dalla modellistica
3d alla pellicola più antica passando per le riprese digitali moderne) in
quello che rimane un epico inno al tempo (passato, presente e futuro sono
continuamente mescolati in maniera più che armoniosa) e all’arte. La cultura è
la nostra culla sin da tempi immemori. Conservarla, studiarla, ricordarla sono
tutti modi utili e indispensabili per una formazione umana. “Cosa saremmo senza
i musei?” è solo una delle tante domande provocatorie e prive di apparente
risposta che il regista lancia al suo pubblico in un film lontano dall’estetica
di Arca Russa così come dallo stile
di Faust (giusto per citare un paio
di titoli recenti e probabilmente più riusciti di quest’ultimo) ma che
nell’insieme funziona e scuote il cuore, nel bene o nel male. Proprio come
un’opera d’arte deve saper fare. Coincidenze?
BLACK MASS, di Scott Cooper (fuori concorso)
Presentato fuori concorso per la
gioia di tutti i giovani fans presenti al Lido in attesa di poter incontrare il
loro beniamino Johnny Depp, Black Mass
sulla carta era un titolo molto atteso anche dalla fetta di pubblico più
cinefila e specializzata. Il film infatti venne anticipato da sequenze che
lasciavano ben sperare soprattutto in un interessante (e forse ormai inatteso)
ritorno di Depp in un ruolo significativo e degno di nota dopo gli innumerevoli
strafalcioni cui ormai ci aveva abituati. La pellicola di Cooper invece non
regala molte emozioni né a livello contenutistico nè formale. Il regista si
limita a mettere in scena una storia di gangsters ben assodata ma che non
presenta molti picchi, lavorando su una regia fondamentalmente piatta e
monocorde, priva di grande entusiasmo se non in qualche breve felice intuizione
qua e là. Tuttavia Black Mass non è
nemmeno esente da punti di forza. In primis l’interpretazione del suo protagonista,
mirata e funzionale alle caratteristiche del personaggio e priva di smorfie o
esagerazioni nel quale sarebbe potuta abbondantemente incappare. In secondo
luogo a Cooper va dato il merito di essere riuscito a realizzare un prodotto
elementare e alla portata di una vasta fascia di pubblico senza scendere a
patti con lo spettatore, almeno non in maniera esplicita. Alla fine si ha la
sensazione di avere appena assistito a uno spettacolo senza infamia e
senza lode, eppure lo stesso script
nelle mani sbagliate avrebbe potuto dare luogo a qualcosa di molto peggio.
Probabilmente dunque è giusto guardare il bicchiere mezzo pieno. Ma sempre di
mezzo si tratta.
MARGUERITE, di Xavier Giannoli (concorso)
A tre anni di distanza da
Superstar, torna al festival di Venezia Xavier Giannoli che questa volta porta
sullo schermo la buffa storia di una dama del Novecento con la passione della
lirica. La Marguerite in questione, tanto ricca quanto stonata, non riesce (o
non vuole?) ammettere la sua inadeguatezza nel cantare ostacolata ulteriormente
da tutti i suoi inservienti che non trovano il coraggio per dirle la verità. Il
regista è bravo a dosare i toni ironici, a curare la forma estetica abbastanza
bizzarra e ricercata, a indirizzare le interpretazioni notevoli di tutti gli
attori e soprattutto a sondare diverse tematiche interessanti e scottanti come
il rapporto tra artista e pubblico, il valore della verità, la componente del
talento in ognuno di noi. Per questi motivi la pellicola rimane un tassello
gradevole e significativo della rassegna, seppure non si possa fare a meno di
notare come una parte centrale un po’ troppo prolissa e ripetitiva e un finale
del tutto fuori luogo pesino inevitabilmente sulla valutazione finale. Peccato,
sarebbe potuto essere davvero un gran film. Così invece rimane una piacevole
sorpresa.
IN JACKSON HEIGHTS, di Frederick Wiseman (fuori concorso)
Nonostante la sua veneranda età e
la più che prolifica carriera, Frederick Wiseman continua ancora a documentare
la realtà con il suo stile neutrale e secco. Conducendoci questa volta nelle
vie di un quartiere newyorkese tra i più multietnici, il regista spinge il
piede sull’acceleratore per dimostrare come tutti noi esseri umani siamo
sostanzialmente sulla stessa barca. Non esistono differenze razziali o
culturali, non esiste l’altro o il diverso, l’uomo o la donna, il gay o il
transgender. Ciò che conta davvero sono l’uguaglianza e il rispetto. Suonano
solo come belle e retoriche parole, eppure il film è tutt’altro che piacione o
accattivante. Come da sempre l’autore ha dimostrato di saper fare, le sue
macchine da presa non scendono a patti né con il pubblico né con la realtà
dinanzi. Musicisti, insegnanti, macellai, tassisti, studenti, assistenti
sociali, mercanti. Tutti ripresi alla stessa maniera in un micromondo che ci
pare di conoscere benissimo pur non avendolo mai abitato. Un quartiere nascosto
agli occhi di tutti e dal quale non si vede l’ombra di un grattacielo. Una
gigantesca bolla che racchiude al suo interno tutta l’umanità necessaria che
servirebbe per aggiustare molte delle problematiche odierne più scottanti. Non
si comprendono, onestamente, le eccessive tre ore di durata. Per il resto c’è
solo da ammirare il lavoro e lo sguardo incalzanti e mai ripetitivi di uno dei
migliori documentaristi ancora in circolazione.