sabato 12 settembre 2015

VENEZIA 72. ULTIMO GIORNO. (Venerdi 11 Settembre)

BEHEMOTH, di Liang Zhao (concorso)


Presentato all’interno del concorso veneziano come ultimo film di tale sezione, Behemoth ha completamente rimescolato le carte in tavola qui al Lido. La giuria infatti non potrà far finta di nulla di fronte a una delle opere più riuscite e sconvolgenti passate qui in rassegna. Il cineasta cinese si addentra in un viaggio stratificato e sempre più profondo nell’inferno (in tutti i sensi) delle miniere di carbone contemporanee che ancora non cessano di mietere vittime. Attuando una sorta di parallelismo con la Divina Commedia di Dante Alighieri, Liang Zhao sprofonda nel sottosuolo per poi riemergere poco alla volta sino ad arrivare al disarmante paradiso costituito dalle così dette città fantasma cinesi (metropoli nuove di zecca e pronte all’uso ma completamente disabitate). Avvalendosi di uno stile tanto accattivante quanto spietato, il film non fa sconti a nessuno, né ai suoi personaggi né tanto meno al suo pubblico. Bastano i primi 10 minuti per capire quanto quella di Behemoth non sia una semplice visione cinematografica ma una vera e propria esperienza. Il regista inquadra tutto con una precisione d’altri tempi senza però mai far risultare fittizio o invadente il suo lavoro da documentarista. Premio in vista, si spera.


PER AMOR VOSTRO, di Giuseppe Gaudino (concorso)


Ultimo dei quattro titoli italiani presentati in concorso, Per amor vostro è il lavoro più curioso e riuscito del nostro quartetto. Ambientato interamente in una Napoli dipinta a tinte bianco e nere, il film di Gaudino racconta una sincera e sentita vicenda di riscatto. Una donna (Valeria Golino lanciatissima per la Coppa Volpi femminile) deve fare i conti con i vicini, con il marito usuraio, con un quartiere che le va stretto e una società che a fatica le riconosce il lavoro. Anna (questo il nome del personaggio) però è tenace e coraggiosa, che non si ferma di fronte alle innumerevoli difficoltà della vita ma porta pazienza e cerca di superare gli ostacoli non solo per il suo bene, ma anche per quello della sua famiglia. Il regista la paragona (a ragione) a una santa contemporanea capace di nutrire amore per tutti mettendo se stessa in secondo piano. Guadino osserva e inscena il tutto con uno stile sopra le righe e molto aggressivo che potrebbe irritare la visione di una buona fascia di pubblico. Il film effettivamente non è perfetto (il finale convince poco) ma le chiavi interessanti e le scelte più originali (usare le musiche napoletane come colonna sonora attiva e centrale nella vicenda) restituiscono un prodotto degno di attenzione e capace di scuotere.

VENEZIA 72. GIORNO 9 (Giovedi 10 Settembre)

11 MINUTI, di Jerzy Skolimowski (concorso)


A 77 anni compiuti, Jerzy Skolimowski si dimostra ancora essere un grande maestro di cinema firmando una pellicola che è al tempo stesso sia una lezione di stile che una lente d’ingrandimento per leggere in maniera approfondita la realtà contemporanea che ci circonda. Raccontando l’intrecciarsi di innumerevoli storie nell’arco temporale dei solo 11 minuti del titolo, il cineasta polacco costruisce una pellicola densissima, tesa e visivamente ineccepibile: un vortice forsennato e scalmanato in cui sarà impossibile non apprezzarne la tecnica minuziosa e calzante. Eppure l’opera lascia il segno anche (e soprattutto) per l’interessante riflessione legata al valore delle immagini digitali e alla loro portata. Di questi tempi è il video virale che domina il panorama comunicativo a tutto tondo. Basta aprire il web per pochi minuti per riuscire a farsi un’idea di cosa stia succedendo dall’altra parte del globo. Tuttavia, la realtà filtrata attraverso internet e gli schermi degli Ipad, non è assolutamente una realtà oggettiva e completa. Non ci si può fermare al primo step per poter affermare di aver compreso un fenomeno. La moltiplicazione dei punti di vista dunque è un’arma a doppio taglio che rende il tutto più fruibile ma sicuramente frammentato (proprio come le vite dei personaggi messi in scena nel film). E allora ecco che basta un solo, minimo, ineccepibile tassello fuori posto per innestare una reazione a catena devastante e inarrestabile. Un unico minuscolo pixel nero di cui si accorgeranno in pochi, ma che all’interno nasconde una voragine di proporzioni significative (almeno per chi la abita).


DE PALMA, di Noah Baumbach e Jake Paltrow (fuori concorso)


In un momento storico in cui il cinema documentario viaggia a marce forzate verso un rinnovamento evidente e significativo, Noah Baumbach e Jake Paltrow decidono di riportare il genere ai suoi albori costruendo un film che più semplice e lineare non si può. Ascoltando per circa 30 ore (poi ridotte a due col montaggio finale) il loro maestro Brian De Palma, gli autori hanno modo di realizzare un’intervista genuina e godibile capace di soddisfare tutto il pubblico che vi prenderà parte. Il maestro statunitense si (e ci) racconta senza alcuna maschera, riflettendo sul sistema hollywoodiani e ricordando gli episodi più significativi e stimolanti della sua carriera. Una carrellata spassosissima e calzante in cui De Palma avrà modo di illustrare diverse problematiche dell’industria cinematografica mondiale e confrontarle con gli imprevisti e gli ostacoli odierni. Il regista sottoposto all’interrogatorio ci offre una lezione di cinema saggia, rilassante e coinvolgente in cui il fattore più significativo che trapela è la sua visione giocosa e appassionata con la materia cinematografica. Consigliato ai cinefili più accaniti e agli amanti dell’autore.


L’ESERCITO PIU’ PICCOLO DEL MONDO, di Gianfranco Pannone (fuori concorso)


Sono stati molti i documentari italiani presentati fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. L’esercito più piccolo del mondo è forse il più curioso per il tema trattato. Pannone si avventura (e noi con lui) all’interno della scuola di addestramento delle guardie svizzere che presiedono la sede papale a Roma. Chi sono? Da dove vengono? Quali studi devono affrontare? Quali sono i loro ruoli all’interno dello stato clericale? Questi ed altri quesiti trovano una risposta lungo gli 80 minuti di pellicola che scorrono in maniera lineare e fluida senza mai annoiare lo spettatore. Il regista è bravo a mimetizzarsi senza essere invadente e a lasciare che la realtà accada davanti alle sue macchina da presa evitando filtri dovuti alla mancata spontaneità delle persone riprese. Peccando forse nel non focalizzare adeguatamente la sua attenzione su  aspetti più introspettivi e personali legati a una tale scelta di vita, l’autore riesce comunque ad entrare in luoghi inaccessibili al pubblico, a stretta distanza con Papa Francesco in persona e nei cunicoli più nascosti di uno dei musei più importanti al mondo, firmando così un lavoro riuscito, stimolante e abile nello schivare luoghi comuni o passaggi retorici e imparziali legati alla sfera religiosa.

mercoledì 9 settembre 2015

VENEZIA 72. GIORNO 7 (Martedi 8 Settembre)

JANIS, di Amy Berg (fuori concorso)


Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, Janis è un documentario prezioso sotto diversi punti di vista. Non solo infatti il film ripercorre fedelmente la carriera e la personalità di una tra le voci più significative del panorama rock (non solo degli anni Sessanta), ma rimane impresso negli occhi dello spettatore per la sua capacità di testimoniare a 360 gradi un continente intero in un preciso momento storico molto delicato. Il film della Berg si avvale di una ricerca documentaria approfondita e precisa tra interviste, foto, documenti, stralci di giornali, spezzoni televisivi e video amatoriali. La voce della Joplin è al centro dell’intera durata lasciando intuire ai neofiti la vivacità e l’energia che esprimeva così come la parallela debolezza e insicurezza che di lì a poco avrebbe segnato la fine precoce di una vita prima ancora che di una leggenda. L’opera procede con fare spedito e coinvolgente senza allentare mai la tensione dinamica e riuscendo nel difficile conto di appassionare gli inesperti e commuovere i fan di vecchia data.


RABIN, THE LAST DAY, di Amos Gitai (concorso)



Ricostruendo in maniera variegata e multiforme le indagine relative all’omicidio del primo ministro israeliano Rabin avvenuto il 4 Novembre del 1994 a Tel Aviv, Amos Gitai costruisce un film macchinoso, (troppo) lungo e a tratti estremamente pedante che tuttavia nasconde al suo interno una forza cinematografica notevole e una passione cronachistica di tutto rispetto. Rabin, The Last Day non si accontenta di riproporre i fatti inscenandoli, e nemmeno di mostrare l’accaduto utilizzando immagini di repertorio. La verità sta nel mezzo, così l’autore opta per entrambe le tecniche qui esposte inscenando i processi ai protagonisti (offrendo dunque un molteplice punto di vista), recuperando alcuni estratti video dai telegiornali dell’epoca e decorando ulteriormente il tutto con riprese più retoriche e poetiche che sono forse il vero grande punto debole del film. Se non si ha vissuto in prima persona (a livello nazionale si intende) la Storia antecedente e posteriore all’accaduta, difficilmente si potrà apprezzare a fondo la pellicola che trasuda cultura e senso di appartenenza nazionale ad ogni singolo secondo. Gitai non fa cronaca, bensì guarda al tutto con l’occhio critico di chi ha ancora segnato sulla propria pelle il risentimento e la paura di quegli attimi. Non si tratta di un film perfetto, ma l’interesse che riesce a scaturire è da ammirare.


ANOMALISA, di Charlie Kaufman e Duke Johnson (concorso)


Il nome di Charlie Kaufman è da sempre legato all’immaginario più folle e sopra le righe che hollywood abbia proposto. Titoli come Essere John Malkovic o Se mi lasci ti cancello sono ormai diventati di culto e l’autore gode di una certa simpatia tra i cinefili di tutto il mondo. Anomalisa è il suo primo lungometraggio animato (con la tecnica della stop motion) e questo non ha fatto altro che amplificare notevolmente la sua attesa. Il film effettivamente funziona molto bene grazie all’immaginario surreale che l’autore riesce a ricreare e a una scrittura fluida e spontanea che da sempre caratterizza i dialoghi dei personaggi inventati dal regista. La storia prende le mosse da un soggetto trito e ritrito (due persone si conoscono e si amano in una notte d’albergo dando una scossa notevole alle loro vite) ma l’impostazione adottata è sicuramente stimolante e originale. Ciò che però non convince sino in fondo è l’autoreferenzialità che Kaufman imprime al suo lavoro cercando costantemente di andare oltre il dovuto e perdendo di vista il messaggio principale dell’opera. Anomalisa rischia dunque di sfilacciarsi notevolmente e di apparire come un mosaico ricco di notevoli e vivaci tasselli ma di cui il disegno d’insieme è dato per smarrito.

martedì 8 settembre 2015

VENEZIA 72. GIORNO 6 (Lunedi 7 Settembre)

A BIGGER SPLASH, di Luca Guadagnino (concorso)


Accolto in maniera decisamente negativa dopo le proiezioni stampa qui a Venezia, A Bigger Splash è un film sicuramente poco riuscito e instabile (soprattutto nella parte finale decisamente da dimenticare) ma che probabilmente non meritava un simile trattamento. Comportandosi come un burattinaio con le sue marionette, Guadagnino fionda sull’isola di Pantelleria quattro personaggi che poi si diverte a massacrare per circa due ore. Quattro solitudini, quattro disagi e soprattutto quattro individui incapaci di comunicare tra loro (non solo per problemi pratici come l’afonia della rock star interpretata da Tilda Swinton) saranno costretti a interagire gli uni con gli altri. Nulla di nuovo, è vero, però il regista studia un interessate chiave di lettura legata alla nudità che molto avrà da dire lungo lo scorrere dei minuti. Il film inizia con un corpo nudo intento a prendere il sole estivo a bordo piscina, poi continua in diversi momenti insistendo a più riprese su tale fattore non tanto per mettere in bella mostra i corpi degli attori, quanto per sottolineare il loro disarmo, la loro difesa completamente azzerata nei confronti della realtà vissuta. Peccato che Guadagnino decida di decorare il tutto con uno stile autoriale e fine a se stesso che dopo poco stufa e rischia la derisione.


EL CLAN, di Pablo Trapero (concorso)


Presentato all’interno di un concorso sinora poco emozionante e decisamente sottotono, El Clan ha il vantaggio di poter essere accostato a pellicole inferiori risultando così una visione piacevole e consigliabile. Ora, non che il film non possegga effettivamente buone qualità, ma probabilmente il lavoro di Trapero (se valutato a mente lucida e senza paragoni alcuni) è da considerarsi meno smagliante del previsto. Raccontando una storia di cronaca argentina in cui una famiglia di malavitosi si specializza nell’arte (se così si può chiamare) dei rapimenti, l’autore costruisce una pellicola dal ritmo serrato e snervante che tiene lo spettatore incollato allo schermo per tutti i suoi minuti. Il cast è in forma e la regia decisamente dinamica aiuta la buona riuscita estetica del prodotto. Ciò che però convince meno è l’apparato tematico trattato troppo con superficialità. Ostacolato anche da una scrittura didascalica ed elementare, il film soffre molto risente molto di tale carenza anche perché le premesse erano più che stimolante (il ruolo del pater familias, il nucleo nativo come banda criminale, il sentimento di rivalsa finale e l’indubbia scelta morale posta davanti al protagonista). Ad ogni modo, ad oggi è un titolo che potrebbe portare a casa qualche premio.


THE ENDLESS RIVER, di Oliver Hermanus (concorso)


Accolto con una lunga serie di fischi al termine della proiezione stampa, The Endless River è effettivamente il film meno maturo visto all’interno del concorso di quest’ultima Mostra del cinema di Venezia. Prendendo il via da un soggetto melodrammatico prevedibile e banale, il regista racconta la storia di una relazione impossibile tra due persone segnate profondamente da un lutto che li accomuna. Hermanus probabilmente si è accorto della vacuità dello script e prova a stimolare l’attenzione dello spettatore insistendo sul patetismo. Purtroppo è proprio questa la scelta che affonda inevitabilmente il progetto, il quale procede arrancando lungo tutti i suoi minuti con svolte narrative futili e uno stile retorico facilmente rimproverabile. Nella seconda parte, il film sembra intraprendere un sentiero più misterioso e affascinante proprio perché si distacca parzialmente dall’eccesso barocco di cui sopra, giocando sul dubbio reciproco che si insinua nella coppia protagonista per via di alcuni qui pro quo fatali e destabilizzanti. Peccato che la parentesi felice dell’opera si esaurisca ben presto per concludere il tutto con un finale frettoloso e superficiale.

sabato 5 settembre 2015

VENEZIA 72. GIORNO 3 (Venerdi 4 Settembre)



FRANCOFONIA, di Alexander Sokurov (concorso)


Presentato in concorso durante la terza giornata del Festival, Francofonia è sicuramente il titolo più atteso dell’intera rassegna, sia per il nome (sinonimo di garanzia) del suo regista, che per la lunga gestazione alla base del progetto che alcuni rumors volevano già in una sua apparizione a Cannes 2014. In ogni caso, la pellicola di Sokurov è un’opera dall’ampio respiro densissima di contenuti e decisamente stratificata. L’autore russo non si fa scrupolo alcuno a risultare sgradevole o noioso, il suo cinema o lo si ama o lo si odia. Eppure non si può rimanere impassibili di fronte alla scelta visiva che spazia in ogni campo (dalla modellistica 3d alla pellicola più antica passando per le riprese digitali moderne) in quello che rimane un epico inno al tempo (passato, presente e futuro sono continuamente mescolati in maniera più che armoniosa) e all’arte. La cultura è la nostra culla sin da tempi immemori. Conservarla, studiarla, ricordarla sono tutti modi utili e indispensabili per una formazione umana. “Cosa saremmo senza i musei?” è solo una delle tante domande provocatorie e prive di apparente risposta che il regista lancia al suo pubblico in un film lontano dall’estetica di Arca Russa così come dallo stile di Faust (giusto per citare un paio di titoli recenti e probabilmente più riusciti di quest’ultimo) ma che nell’insieme funziona e scuote il cuore, nel bene o nel male. Proprio come un’opera d’arte deve saper fare. Coincidenze?



BLACK MASS, di Scott Cooper (fuori concorso)


Presentato fuori concorso per la gioia di tutti i giovani fans presenti al Lido in attesa di poter incontrare il loro beniamino Johnny Depp, Black Mass sulla carta era un titolo molto atteso anche dalla fetta di pubblico più cinefila e specializzata. Il film infatti venne anticipato da sequenze che lasciavano ben sperare soprattutto in un interessante (e forse ormai inatteso) ritorno di Depp in un ruolo significativo e degno di nota dopo gli innumerevoli strafalcioni cui ormai ci aveva abituati. La pellicola di Cooper invece non regala molte emozioni né a livello contenutistico nè formale. Il regista si limita a mettere in scena una storia di gangsters ben assodata ma che non presenta molti picchi, lavorando su una regia fondamentalmente piatta e monocorde, priva di grande entusiasmo se non in qualche breve felice intuizione qua e là. Tuttavia Black Mass non è nemmeno esente da punti di forza. In primis l’interpretazione del suo protagonista, mirata e funzionale alle caratteristiche del personaggio e priva di smorfie o esagerazioni nel quale sarebbe potuta abbondantemente incappare. In secondo luogo a Cooper va dato il merito di essere riuscito a realizzare un prodotto elementare e alla portata di una vasta fascia di pubblico senza scendere a patti con lo spettatore, almeno non in maniera esplicita. Alla fine si ha la sensazione di avere appena assistito a uno spettacolo senza infamia e senza  lode, eppure lo stesso script nelle mani sbagliate avrebbe potuto dare luogo a qualcosa di molto peggio. Probabilmente dunque è giusto guardare il bicchiere mezzo pieno. Ma sempre di mezzo si tratta.



MARGUERITE, di Xavier Giannoli (concorso)



A tre anni di distanza da Superstar, torna al festival di Venezia Xavier Giannoli che questa volta porta sullo schermo la buffa storia di una dama del Novecento con la passione della lirica. La Marguerite in questione, tanto ricca quanto stonata, non riesce (o non vuole?) ammettere la sua inadeguatezza nel cantare ostacolata ulteriormente da tutti i suoi inservienti che non trovano il coraggio per dirle la verità. Il regista è bravo a dosare i toni ironici, a curare la forma estetica abbastanza bizzarra e ricercata, a indirizzare le interpretazioni notevoli di tutti gli attori e soprattutto a sondare diverse tematiche interessanti e scottanti come il rapporto tra artista e pubblico, il valore della verità, la componente del talento in ognuno di noi. Per questi motivi la pellicola rimane un tassello gradevole e significativo della rassegna, seppure non si possa fare a meno di notare come una parte centrale un po’ troppo prolissa e ripetitiva e un finale del tutto fuori luogo pesino inevitabilmente sulla valutazione finale. Peccato, sarebbe potuto essere davvero un gran film. Così invece rimane una piacevole sorpresa.



IN JACKSON HEIGHTS, di Frederick Wiseman (fuori concorso)


Nonostante la sua veneranda età e la più che prolifica carriera, Frederick Wiseman continua ancora a documentare la realtà con il suo stile neutrale e secco. Conducendoci questa volta nelle vie di un quartiere newyorkese tra i più multietnici, il regista spinge il piede sull’acceleratore per dimostrare come tutti noi esseri umani siamo sostanzialmente sulla stessa barca. Non esistono differenze razziali o culturali, non esiste l’altro o il diverso, l’uomo o la donna, il gay o il transgender. Ciò che conta davvero sono l’uguaglianza e il rispetto. Suonano solo come belle e retoriche parole, eppure il film è tutt’altro che piacione o accattivante. Come da sempre l’autore ha dimostrato di saper fare, le sue macchine da presa non scendono a patti né con il pubblico né con la realtà dinanzi. Musicisti, insegnanti, macellai, tassisti, studenti, assistenti sociali, mercanti. Tutti ripresi alla stessa maniera in un micromondo che ci pare di conoscere benissimo pur non avendolo mai abitato. Un quartiere nascosto agli occhi di tutti e dal quale non si vede l’ombra di un grattacielo. Una gigantesca bolla che racchiude al suo interno tutta l’umanità necessaria che servirebbe per aggiustare molte delle problematiche odierne più scottanti. Non si comprendono, onestamente, le eccessive tre ore di durata. Per il resto c’è solo da ammirare il lavoro e lo sguardo incalzanti e mai ripetitivi di uno dei migliori documentaristi ancora in circolazione.

giovedì 3 settembre 2015

VENEZIA 72. GIORNO 2 (Giovedi 3 Settembre)



BEASTS OF NO NATION, di Cary Fukunaga (concorso) 

Dopo lo straordinario successo ottenuto dirigendo la prima stagione di True Detective, il regista Cary Fukunaga torna a fare i conti con il cinema firmando un lungometraggio crudo e spietato, sicuramente imperfetto sotto diversi punti di vista ma interessante e coraggioso per molti altri. Beasts of No Nation infatti racconta le terribili gesta di un bambino soldato alle prese con le atrocità delle guerre africane. Lo spunto può sembrare furbo e mirato al successo dati gli ingenti problemi relativi all’immigrazione che negli ultimi anni si fanno sempre più massicci. Eppure la pellicola riesce a trattare in maniera precisa la problematica della guerra dal punto di vista dei piccoli soldati troppo spesso dimenticati dai media e ora posti al centro della lente d’ingrandimento. Attraverso un classico coming of age, Fukunaga spinge sull’acceleratore per tutta la durata del suo film iniziando con una sorta di prologo leggero e ironico per poi immergere lo spettatore nelle assurdità del conflitto esplicitate senza nessuna remora. Qualche svolta un po’ troppo retorica c’è, così come la presenza di un ritmo calante e di un finale poco efficace e più banale. Eppure finalmente qualcuno si è avventurato in questo campo decisamente ostile e rischioso, decidendo di non risparmiare nessuna critica sociale (funzionale la frecciatina rivolta ai venditori d’armi del così detto primo mondo) e nessuna atrocità agli occhi del pubblico. Nota di merito alla straordinaria prova recitativa del giovanissimo protagonista, forse la carta più sorprendente dell’intero progetto.



SPOTLIGHT, di Thomas McCarthy (fuori concorso)

Ispirandosi al grande cinema d’inchiesta americano degli anni Settanta e avvalendosi di un cast di grande rispetto (Mark Ruffalo, Stanley Tucci, Michael Keaton), l’ex regista indipendente Thomas McCarthy firma una pellicola solida, ritmata, corposa e senza apparenti sbavature per ricostruire l’indagine condotta da un team di giornalisti di Boston relativa a uno scandalo di pedofilia per mano di alcuni preti statunitensi. Il titolo che immdiatamente torna alla mente dello spettatore durante la visione è ovviamente Tutti gli uomini del presidente, con il quale Spotlight condivide lo stile ma soprattutto l’impianto narrativo. Il percorso dei protagonisti infatti prende le mosse da un caso isolato e passato quasi inosservato per poi rivelare poco alla volta un marcio sempre più ingombrante e minaccioso. Senza mai forzare la mano su facili accuse contro la Chiesa e le sue istituzioni, McCarthy opta per una regia pulita e neutrale che però (giustamente) non evita di sottolineare i gravi errori commessi dall’stituzione. In anni in cui il mondo corre velocemente da una crisi all’altra e il cinema cerca di stupire il pubblico ingozzandolo con pellicole epiche, stupefacenti e sempre più pirotecniche, è interessante notare come un regista tendenzialmente estraneo al circuito mainstream riesca a proporre un’opera asciutta e “semplice”, provando a smuovere le folle insistendo sul valore della verità e mostrando le faticosissime battaglie che pochi di noi combattono quotidianamente nel suo nome. Da vedere.



UN MONSTRUO DE MIL CABEZAS, di Rodrigo Plà (orizzonti)

Scelto come film d’apertura della sezione parallela Orizzonti, Un monstruo de mil cabezas è un thriller psicologico (ma non solo) di tutto rispetto. Uno spunto semplice, lineare ma decisamente calato nel presente (una donna cerca giustizia privata nel vano tentativo di salvare la vita al marito gravemente malato ma ostacolato da una burocrazia tiranna) che trova il degno respiro grazie alla regia claustrofobica e tenebrosa che Rodrigo Plà imprime al lavoro. Molti personaggi, molti punti di vista, molti volti di un unico grande mostro citato nel titolo. Anche se a tratti un pelo troppo macchinoso e ripetitivo, il film riesce a incollare lo spettatore sulla poltrona senza mai stancarlo, fotografando una società multiforme mai pienamente conscia delle sue azioni. Proprio per questo motivo il regista spesso decide di accompagnare l’inquadratura con immagini riflesse in specchi e/o vetrate in cui i personaggi vengono letteralmente sdoppiati di fronte alla scelta morale cui il plot li pone dinanzi. Senza mai allentare il ritmo, il film sorprende persino nei titoli di coda dove viene svelato (con un’intuizione brillante e originale) che la vicenda appena narrata è stata ispirata da fatti di cronaca davvero accaduti.

mercoledì 2 settembre 2015

VENEZIA 72. GIORNO 1 (Mercoeldi 2 Settembre)


EVEREST, di Baltasar Kormakur (fuori concorso)

Presentato alla Mostra del cinema di Venezia come film d’apertura, Everest è un blockbuster di vecchio stampo: un grande budget, una grande produzione, un grande cast e (purtroppo) una grande retorica di fondo rimangono gli elementi più succulenti del lavoro di Kormakur. Se i fan più giovani sono in trepidante attesa di poter vedere sfilare sul tappeto rosso i propri beniamini quali Jake Gyllenhaal, Josh Brolin e Keira Knightley, i critici e i cinefili più appassionati non hanno avuto modo di apprezzare la pellicola per via della sua vuota ed elementare struttura narrativa e contenutistica. Everest ha ben poco da dire durante le sue due ore di durata, preferisce piuttosto affidarsi ad un intrattenimento visivo riuscito e puntuale ma nemmeno poi così tanto stupefacente. Perfettamente calato nell’estetica hollywoodiana contemporanea (che cerca di appagare lo spettatore con super mostri o super cattivi sempre più giganti, grossi o corpulenti) è interessante notare come il film in questione vada nella medesima direzione senza però scomodare alcuna creatura immaginifica, bensì affidandosi alla vetta più alta e crudele che Madre Natura abbia creato. L’amore, il coraggio, l’amicizia, le ragioni che spingono l’uomo ad affrontare prove oltre il proprio limite sono tutti temi sfiorati e poi completamente abbandonati dal regista, il quale firma dunque un prodotto capace di emozionare ben poco ma che probabilmente riscontrerà un buon successo ai botteghini mondiali.